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Il lato oscuro della maternità

Il pensiero di questo scritto nasce pochi giorni fa, mentre faccio una chiacchierata con quella che almeno per i primi tempi sarà la baby sitter del mio secondo figlio.

Lei è una futura collega che, come molti di noi ai tempi dell’università, cerca di tirar su qualche soldo per partecipare al proprio mantenimento. E al momento sta facendo la tesi che tratta le rappresentazioni sociali della maternità.

Questa è la premessa che apre il sentiero alla riflessione, già in passato spesso abbozzata, sulla faccenda dell’essere madri, dell’essere madri oggi, con i fantasmi della maternità per come era intesa decenni fa e che, spesso, rimane in fondo un substrato del nostro pensare.

Il ricercatore sociale interpreta i pregiudizi delle donne alla luce delle rappresentazioni sociali cristallizzatesi nel tempo, come effetto delle influenze dalle prime agenzie educative in poi.

Dal mio punto di vista, mi viene più semplice dare senso alle idee delle donne alla luce delle identificazioni che nell’arco della vita si intrecciano, non solo dalla differenza tra l’educazione delle bambine e dei bambini, ma anche prima, dalle rappresentazioni fantasmatiche che la madre ha del “bambino della notte” e che investono il transgenerazionale.

Ascoltando la ragazza parlare della ricerca e delle cose dette dalle donne, spesso neo mamme, rimango stupita da alcune riflessioni che paiono francamente anacronistiche, ma sento anche risuonare dentro di me delle tematiche e delle coloriture cui sono io stessa assai sensibile.

Ciò che più catalizza l’attenzione delle madri è la centralità dell’evento parto e dell’allattamento, naturale o artificiale che sia.

Sembra altrettanto centrale la contrapposizione tra naturale e “artificiale”, laddove l’introduzione di un “artificio” diventa un impedimento, specie mentale. Se si pensa al significato di artificio/artificiale, ad esempio, probabilmente si affacceranno alla finestra della nostra mente almeno due aree di significato: in matematica, con artificio di calcolo, ci si riferisce ad ogni operazione che, senza alterare una data espressione (per es., un’equazione) e applicando le usuali regole di calcolo, la trasformi per renderla più semplice e maneggevole, onde facilitare la soluzione di un dato problema.

Mentre, in campo meno tecnico, quando si usa il termine artificiale, si fa riferimento a qualcosa ottenuto con procedimenti tecnici che imitano o sostituiscono l’aspetto, il prodotto, o il fenomeno naturale.

Ecco, io credo che quando le donne parlano di allattamento non al seno utilizzino il termine artificiale facendo riferimento al secondo campo di significato sopra esposto. Del resto è già molto significativo il fatto che non si è riusciti a modificare il modo con cui si definisce l’allattamento con latte non materno, che difatti si continua a indicare come latte artificiale al posto del più corretto latte formulato.

La stessa categorizzazione si applica al parto naturale vs cesareo.

E, quindi, artificiale anziché diventare qualcosa che serve a rendere qualcosa più semplice e maneggevole, onde facilitare la soluzione di un dato problema, diventa un giudizio morale sulla capacità materna, sull’amore verso i propri piccoli, sull’essere o meno una madre abbastanza buona, che spesso diventa – ahimè – sinonimo di sacrificale.

Con conseguenze davvero terribili, a volte.

Ho allattato a lungo il mio primo figlio e allatto il nuovo cucciolo, ma dall’essere consapevole dell’importanza dell’allattamento al seno all’essere un kamikaze di tale modalità di allattamento c’è una grande differenza.

Ho in mente il pianto senza fiato di una neo-mamma, pochi giorni fa, che al telefono, con attaccata al seno la sua piccola Alice di poco meno di due settimane, si dispera perché allattare le fa troppo male al seno. Lei sa che è importante allattare e che poi, magari, il dolore delle ragadi passerà e che quindi deve resistere. E, insieme, si chiede dove sbaglia, cosa sbaglia, cosa dovrebbe fare, etc.

E l’idea dell’allattamento naturale è talmente radicata che anche la possibilità di un para capezzolo in silicone, che darebbe sollievo, è vista con una stortura di naso. Sia mai che qualcosa si frapponga tra le nostre pelli e quelle del nostro cucciolo! O che il piccolo debba fare un pochino di fatica in più per bearsi del latte materno.

Questo è il rovescio della medaglia; da un lato il narcisistico senso di onnipotenza davanti a quell’esserino che dipende da te, dall’altro la colpa percepita ogni volta che qualcosa non va. Se ha mal di pancia è per colpa del latte, se non si attacca bene – e quindi vengono le ragadi o le coliche – è colpa della mamma, se sembra avere sempre fame e cerca la Tetta è perché il latte non è abbastanza nutriente.

L’allattamento e il seno si caricano in tal modo di così tanti significati e si addensano d’ansia che finiscono col diventare una sorta di “seno cattivo”.

Quando onnipotenza e colpa si trovano sulla stessa barca, di solito il terzo compagno di sventura, spesso origine del circolo assai poco virtuoso, è il senso di impotenza.

Forse da qui si parte. Davanti alle aspettative melliflue della relazione mamma-neonato, davanti ai cosa si dovrebbe provare, pensare, fare, (sempre amorosa e premurosa) non sempre è possibile per la donna integrare in modo armonico gli affetti dell’area dell’amore con quelli dell’odio. Per intenderci, quando il bambino piange tutta la notte o non si ha nemmeno il tempo di fare una doccia senza che il bimbo, allattato a richiesta, suoni la campanella del pasto, non è poi così strano rimpiangere momenti di libertà o detestare quel pianto stridulo. Pensieri che passano nella testa di tutte – o quasi – le neomamme, ma che devono essere taciuti altrimenti si violerebbe il Primo Comandamento: Ama il figlio tuo, più di te stessa, sempre e comunque. E si entrerebbe a fare parte del gruppo delle madri snaturate.

Non è semplice dichiarare di odiare, anche, la propria creatura, che pure si ama moltissimo e si è desiderato tanto avere, se non in salotti adeguati, come i nostri studi di psicoterapeuti e forse di qualche illuminato neonatologo. Non per niente da qualcuno è stato definito il lato oscuro della maternità, che segue il lato oscuro della gravidanza.

La retorica di una maternità sacra e intangibile, rimuove il rovescio della medaglia, quello che perturba, laddove covano disagi, angosce, financo violenza.

Se la mamma che rappresenta l’Ideale è la Mamma Tutto (ricordate la canzone dello Zecchino D’Oro cantata anche dalla Zanicchi?) è ovvio che non si sia mai all’altezza e si sia incapaci, troppo piccole, impreparate – come ogni neo mamma deve essere.

Mamma tutto – 1976

Chi asciugava i pianti miei? Mamma buona era lei…

Chi in cucina cucinava? Mamma cuoca canticchiava…

Io la sera nel lettino, Mamma a nanna lì vicino…

La mia mano nella sua Mamma amica mia…!

Due più uno fanno tre, Mamma scuola accanto a me…

Mal di pancia, o starnutivo: Mamma medicina aveva…

Quando c’era il compleanno: Mamma festa ogni anno

e Mamma regalo, poi, non mancava mai!

Poi la grande delusione della prima passioncella

E arrivò Mamma sorella

Lei mi strinse sul suo cuore, io dimenticai il dolore

con Mamma consolazione…

Non sapevo ancora che quella mamma era per me

Tutto quel che al mondo c’è

e in un attimo imparai: Mamma Tutto è lei!

Sulla stessa linea si viaggia rispetto al parto. Se non si fa un parto naturale, possibilmente senza epidurale, non si è una buona madre, non si può essere ammesse all’interno del gruppo delle madri super sofferenti per i propri figli. A parte chi ancora riferisce “non ho voluto l’anestesia – bambino di 4 kg – perché nella Bibbia c’è scritto partorirai con dolore, sembra che anche la possibilità di avere un travaglio meno sofferente sia inclusa tra gli artifici da cui stare alla larga.

C’è, poi, una certa tendenza delle madri, non priva di ambivalenza, a narrare quasi con fare sadico le sofferenze del parto, alle non madri, ma probabili future tali. Tanto che spesso si sente dire dopo una visita all’amica neo-mamma: “mi è completamente passata la voglia di fare figli!”. Altrettanto frequente e radicata è la tendenza di pensare alla maternità come un meraviglioso idillio, che inizia in gravidanza e si protrae per le quaranta settimane di gestazione, fino al trionfo della gioia al momento del parto, quando finalmente si conosce il proprio piccolo e ci si può assicurare sia esattamente come dovrebbe essere: cinque dita ad ogni mano e piede, due occhi, due orecchie e labbra ben definite.

Spesso non è così; le nausee, i problemi vari che si possono associare a quei nove mesi, uniti all’ansia della nuova esperienza e alle modifiche neurormonali possono rendere alcuni dei periodi della gravidanza tutt’altro che leggeri e desiderabili.

Certo, le cure e le attenzioni che le donne gravide ricevono hanno di sicuro un certo ritorno affettivo che fa sentire la donna importante e “al centro”. Centralità che le deriva dall’esserino che porta in grembo, ragione per cui molte donne, diventate madri, sentono in sé la fatica e la solitudine del nuovo stato quando le attenzioni non sono più tutte per loro. Ripensando ad alcune delle cose che le neo-mamme raccontano, mi viene da chiedermi se parte della rigidità con cui ci si aggancia al mantra dell’allattamento al seno a tutti i costi non sia da ricercarsi nella necessità di alcune madri di rimanere centrali e insostituibili, come lo si è state per i mesi della gravidanza. Un padre può dare un biberon di latte (formulato o meno), ma non può portare un figlio in utero, né allattarlo al seno.

Un’altra domanda che mi si pone è se ci sia un qualche legame tra l’idea di dover soffrire tanto e il risultato di avere una cosa meravigliosa, una gioia immensa, che – è vero – per alcuni momenti (alcuni!!!) fa dimenticare il dolore del parto.

Ma del resto, non sono illuminanti le varie filastrocche e Ninna Nanne di altri tempi (oggi ci si sta assai più attenti! In nessun libretto per la nanna troverete l’Uomo nero e la sua banda della famosa Ninna Nanna Ninna Oh, questo bimbo a chi lo do? Lo darò all’Uomo Nero che lo tenga un mese intero), per non parlare delle fiabe come quelle dei Fratelli Grimm? Pollicino, Cenerentola, Biancaneve e i poveri Hansel e Gretel sono tutte caratterizzate da abbandoni, minacce, abusi e violenze proprio da chi di loro dovrebbe prendersi cura. Eppure pensando a queste fiabe è semplice trovare l’aspetto di scissione cui si accennava prima. La Mamma è sempre doppia, mamma buona –spesso morta- e matrigna cattiva.

Non Son tutte belle le mamme del mondo e, soprattutto, nessuna mamma è tutta bella o tutta buona.

Il discorso sulla scissione e sulla doppiezza apre un portone alle riflessioni sulle psicosi post partum, che per fortuna esitano in violenze omicide (quelle che saltano ai dis-onori della cronaca) solo in numero statisticamente contenuto. Tuttavia, ci sono molte altre situazioni che vedono i figli e la relazione genitore-figlio vittime di violenze assai più insidiose. Madri narcisiste, che considerano i propri figli estensione del sé e che cercano una realizzazione attraverso di essi; madri che considerano i figli proprio possesso, madri depresse, madri ansiose o, ancora, invidiose. Donne e madri che uccidono la possibilità dei figli di crescere e separarsi, che godono della creazione di legami asfissianti privi di rispetto e della consapevolezza dell’Altro.

Del resto, riconoscere la violenza del materno è un pezzo di puzzle necessario da includere alla narrazione della storia che ogni figlio fa di sé. Necessario, soprattutto, per fare chiarezza nell’intreccio di dinamiche di identificazione e proiezione che si articolano, non sempre in modo chiaro, in ogni donna che da figlia diventa madre.


Giovanna Tatti – Gennaio 2014

Articolo pubblicato su:

Pratica Psicoterapeutica – Il Mestiere dell’Analista – Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia – NUMERO 12 – 1 – 2015 mese di Giugno

 

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